Gli zaini insanguinati chiedono risposte
Sedici
anni. Anche io li ho avuti. E quando ho visto quei libri aperti e che
nessuno leggerà più, quegli zaini svuotati e abbandonati con il fardello
di fatiche e sogni che accompagnano ogni sedicenne, quelle scarpe senza
piedi che le portino sulle strade di una vita tutta incerta ma piena di
prospettive e progetti, tutta da immaginare e assaporare, non ho potuto
trattenere le lacrime. Le lacrime versate quando sedici anni li avevo
io e nel giro di pochi mesi vidi nella mia città i rottami delle auto
della strage di Capaci, le macerie di via D’Amelio, dove era saltato
Borsellino, che incontravo tutte le domeniche nella mia parrocchia, e il
sangue secco di Padre Pino Puglisi a Brancaccio, professore di
religione del mio liceo. Credevo che non avrei mai più riassaporato
lacrime della stessa sostanza, generate dallo stesso nonsenso. Avevano
lo stesso sapore, anzi, erano ancora più amare. Perché al ricordo si è
aggiunta l’evidenza che questo è accaduto in un luogo dove lavoro tutti i
giorni: una scuola.
Una sedicenne che mi conosce per i libri
mi ha scritto da Brindisi: «Io ero lì esattamente 10 minuti dopo la
strage perché la mia scuola si trova a venti metri circa dal luogo
maledetto. Oggi alle 18 tutti noi Brindisini scenderemo in piazza, ma
non basta. Vogliamo che da tutt’Italia giunga il grido di forza di un
popolo che si è stancato e che vuole ritrovare se stesso. Vogliamo che
si dia appoggio alla gioventù e soprattutto a noi giovani del meridione
che abbiamo il sole nel cuore ed il mare che ci palpita nell’anima. E
non abbiamo paura». A lei fa eco un’altra ragazza: «Nella mia mente è
nato il terrore. In Italia è nato ancora una volta disordine, angoscia,
insicurezza. Più di quanto già non ce ne fosse. L’Italia ha perso
ancora, siamo deboli. Parlo dal basso dei miei 16 anni, ma credo che ciò
valga per ogni singolo giovane, uomo, anziano, che si senta realmente
Italiano».
Questa volta a cadere non sono uomini
coraggiosi che lottano consapevolmente, ma sono dei sedicenni che
prendono un autobus per andare a scuola, quelli che accolgo in classe
tutte le mattine e lottano per un’interrogazione, una fidanzata, un po’
di futuro. E li vedo lì ogni mattina, prima che la campanella squilli, a
scambiarsi sbadigli, idee, sorrisi, racconti, con una vita tra le mani
tanto fragile quanto forte. Quegli zaini, quei libri, quelle scarpe
rimarranno immobili, come statue di una memoria pietrificata e
tenteranno di pietrificare tutto il resto: sogni, speranze, fiducia.
Quegli oggetti muti ci sussurreranno di ritirarci in silenzio fino a
convincerci che tutto è inutile, che siamo soli, che lo Stato non riesce
a difenderci, che non abbiamo nulla da sperare in un Paese ferito da
una politica inefficace, ingorda e debole, preda facile di una malavita
dai connotati terroristici o mitomaniaci, che sferra un attacco che non
ha precedenti nel nostro Paese.
Portare il sangue in una scuola è un peccato originale in Italia. Non è come le altre stragi.
Abbiamo visto zaini schiacciati da
scuole crollate per disastri naturali o incuria umana, ma non abbiamo
mai visto zaini innocenti svuotati da una ferocia calcolata. Sono
rimasto in classe, fermo, come se quell’aula in cui fare innamorare i
ragazzi della verità, del bene, della bellezza e del sacrificio che
comportano, fosse diventata un campo minato; e cattedra e banchi una
trincea di sangue. Anche lì può arrivare la mano cruenta del terrore,
per colpire alla cieca e lasciare, insegnanti e studenti insieme, orfani
di un orizzonte che dia senso a quello studio, a quelle discussioni, a
quelle parole. Ma che te ne fai di queste cose adesso? Non ci credi
quasi più. Tu costruisci giorno dopo giorno e in un attimo tutto viene
spazzato via. Quella speranza che a fatica hai seminato e sta
germogliando in un filo d’erba viene bruciato dal fuoco di una bomba.
La paura ci fa tremare vene e polsi, ma
«chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola»
ripeteva Borsellino: sfidare questa paura che pietrifica e ci toglie
ogni certezza è la sfida, adesso.
Proprio come i rottami di Capaci, le
macerie di via d’Amelio, il sangue sulla piazza di Brancaccio, quegli
zaini abbandonati, quei libri macchiati, quelle scarpe svuotate, daranno
una scossa a tanti uomini e donne, che non sanno cosa hanno finché non
lo perdono. Da quella follia omicida dei primi Anni Novanta nacque una
primavera di ribellione e di rinnovamento. E sarà proprio dalla scuola
di Brindisi che spero di vedere sorgere una Scuola che le unisca tutte,
scaturire la forza di una gioventù che non vorrà più scendere a patti
con la noia e il qualunquismo. L’errore più grande è stato colpire una
scuola e i giovani. Adesso non potremo più ignorare a che cosa veramente
abbiamo rinunciato da troppo tempo: il futuro dei nostri ragazzi. Il
terrore non ci paralizzerà, ma darà nuovo slancio ad un eroismo per
troppo tempo compresso per affrontare una crisi già in atto da anni e
che abbiamo accettato solo quando è diventata economica. Ma la vera
crisi è avere abbandonato un Paese alla forza cieca dell’avidità, del
potere, del compromesso, del silenzio omertoso, dello sberleffo, della
disunione, del cabaret, della raccomandazione, della parola vuota.
Questo ci ha indebolito sino a chiudere gli occhi: basteranno tre
bombole di gas a risvegliarci?
Il sangue dei martiri è da sempre il
seme della rinascita. Lo sapevano bene quei tre uomini che ho visto
morire nella mia città. Proprio loro continuano a darmi speranza:
Falcone diceva che «la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni
umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine»
e la ricetta l’aveva proprio il suo collega Paolo Borsellino, le cui
parole oggi rimbombano forti e dovrebbero essere pronunciate in ogni
scuola alla prima ora di lunedì prossimo: «Se la gioventù le negherà il
consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un
incubo». E proprio di onnipotenza parlava Padre Puglisi, ma quella vera:
«La mafia è forte, ma Dio è onnipotente».
Io non so se quella di Brindisi sia una
strage mafiosa. Preferirei di no. Quello che so è che tocca proprio a
noi, docenti e studenti, a scuola, indossare quelle scarpe svuotate,
mettere in spalla quegli zaini abbandonati e leggere quei libri
macchiati di sangue. Altrimenti dimenticheremo ancora una volta perché
siamo arrivati sin qui e non sapremo rispondere alle domanda che ieri,
Mia, sei anni e nipotina di un’amica, le ha posto: «Zia, perché mettono
le bombe nelle scuole? Io a scuola non voglio più andare se mettono le
bombe, voglio studiare, diventare grande e diventare una dottoressa come
te».
Tratto da Prof 2.0